Mio figlio era disabile e tale sarebbe rimasto. Inutile sprecarci tempo ed energie. Un paio di sedute la settimana, giusto per prevenire deformazioni osteoarticolari e non avere grane per non aver ottemperato al provvedimento 7/5/1998 della conferenza Stato-Regioni.
Non ero ovviamente d’accordo, pur essendo consapevole che da una paralisi cerebrale non si guarisce. Solo ero, e resto, convinta, che se chi si occupa di riabilitazione è il primo a non credere che il suo lavoro possa modificare in meglio la vita e le competenze del paziente, sia totalmente inutile affidargli il futuro di un bambino.
Non ero obnubilata dalla disperazione, e quindi sono riuscita ad evitare le sirene televisive, i centri pseudo miracolosi e i viaggi della speranza.
Anche se la speranza è sempre stata la prima cosa che ho sempre messo in valigia. Prima c’era un lungo lavoro di selezione, richiesta di referenze, ricerca di altri genitori che avevano provato il centro selezionato e le loro valutazioni. La principale discriminante è che il centro fosse riconosciuto di alta specializzazione e perciò potenzialmente rimborsabile dallo Stato. Lo considero una garanzia il non mettere in mano mio figlio a terapisti improvvisati, metodologie senza alcuna validazione scientifica o potenzialmente pericolose, per il suo equilibrio fisico e psichico.
Così, quest’anno, sono approdata in un ospedale pubblico in Repubblica Ceca. Ero diffidente, confesso. Mi chiedevo se un piccolo Paese, uscito da non molti decenni da un regime totalitario, potesse davvero offrire qualcosa di innovativo dal punto di vista riabilitativo. La realtà incontrata ha stravolto le mie convinzioni e mi ha offerto, oltre alla riabilitazione intensiva, anche una visione diversa sull’handycap.
Al di là dell’esperienza (sono 70 anni che si occupa solo di riabilitazione), ho trovato un ospedale moderno, con attrezzature avveniristiche e un approccio alla disabilità nettamente diverso da quello a cui ero abituata. Diciamocelo, nel sentire comune, il bambno disabile è il bambino che va protetto, aiutato….fino a sostituirsi a lui anche nelle minime cose.
Un bambino destinato (o condannato) a restare bambino tutta la vita. Lì non era così. Ogni bambino (il centro si occupa di ragazzi da 0 a 18 anni) veniva valutato attentamente, e, oltre alla riabilitazione, veniva messo in grado di provvedere a se stesso autonomamente.
L’aiuto c’era ma solo se strettamente necessario.
Ho visto ragazzi con tetraparesi spastica, arrivare in piscina e spogliarsi e mettersi in costume. Solo allora interveniva l’assistente per sollevarli dalla carrozzina e portarli in acqua. L’assistente interveniva nuovamente per farli uscire dall’acqua e riportarli sulla carrozzina, e si rivestivano da soli. Con difficoltà immense sicuramente ma ce la facevano. Perchè qualcuno lo aveva insegnato loro. Un’autonomia fondamentale!
Parlandone col primario, si diceva stupito che un bambino con un’autonomia come mio figlio, avesse sempre al seguito la mamma a mettere calzini, infilare il costume e sfilare magliette. Perché non imparando a cavarsela da solo, sarebbe stato sempre dipendente.
Il loro scopo era di tirare fuori il meglio dai loro bambini, per metterli in grado di vivere la loro vita senza dipendere in tutto per tutto da un’altra persona. Se puoi fare da solo lo fai, perchè è importante anche l’autostima. Poco importa se sarebbe più semplice e veloce fare al posto suo. Un episodio mi è rimasto nel cuore. Un bambino, più o meno dell’età del mio (7 anni).
Con una tetraparesi atetosica e coreica e una sordità. Un bambino deambulante. Lo incontravamo sempre in piscina e la prima volta che l’ho visto, sono rimasta basita a vedere come fosse più autonomo del mio.
Nonostante le difficoltà dell’atetosi, si spogliava, piegava i vestiti e attendeva paziente che l’assistente lo aiutasse a entrare in acqua.
Un pomeriggio l’ho visto in difficoltà.
Si era rivestito ma l’apparecchio acustico gli era finito dietro la schiena. Con la scoordinazione legata alla corea non riusciva a recuperarlo e da mamma chioccia quale sono, istintivamente mi sono avvicinata per aiutarlo. Il terapista mi ha fermata con un’occhiataccia. Doveva trovare da solo la strategia, perchè solo così avrebbe potuto provvedere in caso si fosse trovato nella stessa situazione senza nessuno che potesse aiutarlo. Ci ha impiegato un buon quarto d’ora e alla fine ci è riuscito. Se gli ricapita, ci metterà solo 10 minuti e imparerà nuovamente per mettercene solo 5 la volta successiva. Onestamente, guardando mio figlio, che uscito dalla piscina si faceva mettere i calzini perché “coi piedi umidi non ci riesco”, mi sono chiesta se davvero il mio fosse un atteggiamento giusto o se provvedendo in tutto per tutto non contribuisco a renderlo completamente dipendente da un altro essere umano.
E’ che io non ci sarò per sempre, e poi… chissà se da grande avrà voglia di portarsi sempre la mamma al seguito perchè nessuno gli ha insegnato l’indipendenza……… E’ stata una doccia gelata rendermi conto che in questo centro la persona disabile è considerata una persona.
Con tutte le limitazioni legate alla patologia,certo. Ma una persona da riabilitare per metterla in condizioni di vivere la propria vita con la massima autonomia possibile innanzitutto.
Io, con l’immenso amore che ho per mio figlio, non sono sicura di fare il suo bene prevenendo e intervenendo a ogni difficoltà. Ho sempre pensato di contribuire in questo modo a non farlo sentire diverso. Mi sto chiedendo invece se la disabilità non sia più nella mia testa che nella patologia di mio figlio. Rientrata, ho deciso di cambiare alcune cose. Ti insegno come fare e poi fai da solo. Ovviamente non è contento, perchè fa fatica. E’ duro per entrambi: per me perché mi si spezza il cuore sentirlo piagnucolare perché è la terza volta che si mette la maglietta al contrario o non gli entra il calzino e so che mi reputa diventata improvvisamente crudele; per lui, perché la vita è nettamente meno comoda e percepisco la sua fatica.
Però sono certa che arriverà il giorno in cui mi dirà “vai a farti un giro,me la cavo da solo”. E sarà un bel giorno!