Erano inoltre gli unici filtri in grado di rimuovere cisti di Entamoeba Histolytica, difficilmente inattivabili con disinfettanti chimici.
Il primo utilizzo industriale nel campo delle piscine è stato da parte della Culligan negli anni 60. Più o meno nello stesso periodo questo sistema è stato utilizzato dalla Everpure. In Italia sono stati importati da Culligan Italia negli anni ’70.
I filtri a diatomea sono molto utilizzati in enologia e nella produzione della birra, così come è piuttosto diffuso il loro uso in acquariologia.
Per quanto riguarda l’utilizzo nel campo del trattamento dell’acqua di piscina, la filtrazione a diatomea è sicuramente meno diffusa rispetto alla filtrazione a sabbia, soprattutto a causa del maggior impegno che richiedono nella gestione.

LE DIATOMEE

Le diatomee sono alghe marine unicellulari, caratterizzate da un elaborato esoscheletro siliceo.

Il loro nome significa “tagliate in due”, perché la loro cellula è racchiusa in gusci a forma di dischi, d’ellissi, di rettangoli, di bastoncini, di losanghe, di triangoli, che si dividono in due metà, nel senso dello spessore, incastrandosi come il corpo e il coperchio di una scatola. Quando l’organismo unicellulare si divide in due cellule-figlie, l’una delle cellule porta via la metà della scatola, utilizzandola come coperchio e ricostruendo un corpo.

Invece di secernere calcare, le Diatomee secernono silice che forma incrostazioni scure nell’involucro trasparente, incrostazioni così minute che le Diatomee servono come standard per graduare i microscopi.

Le piccole incisioni che ornano i gusci in disposizione simmetrica o raggiata ricordano i gioielli; e questa somiglianza si accentua quando le Diatomee si presentano in catene.

Queste alghe hanno costruito attraverso i tempi immensi depositi, ai quali le sottilissime particelle silicee – che formano la decorazione dei gioielli viventi – conferiscono un grande potere abrasivo. Le polveri per pulire e levigare, come il “Tripoli” e il “Kieselguhr” hanno proprio questa origine. La farina fossile ricavata dai giacimenti più antichi viene usata anche, tra l’altro, nella produzione della dinamite e per la raffinazione dello zucchero.

Le diatomee sono comparse circa 135 milioni di anni fa.

Il diametro delle diatomee varia da meno di 4 micron a circa 50-60 micron.
Possiamo vederne alcune specie fotografate al microscopio elettronico:

PRINCIPI DI FUNZIONAMENTO DEI FILTRI

Per la filtrazione si utilizza farina fossile, silice amorfa di origine organica proveniente dagli scheletri di diatomee depositatisi, in milioni di anni, sul fondo del mare ed emersi, con gli sconvolgimenti geologici, in imponenti giacimenti oggi sfruttati.

Nei filtri la farina fossile viene distribuita uniformemente su supporti di vario tipo (tela, ceramica, polipropilene, ecc.) e di varia forma, in genere candele o dischi, in uno strato di due-tre millimetri. In genere si utilizza circa 1 Kg di materiale per metro quadro di superficie filtrante.
L’acqua, passando attraverso lo strato di farina fossile, viene filtrata e riconvogliata nei collettori di mandata.

La granulometria delle diatomee, ridotta rispetto a quella della sabbia, già di per sé basterebbe a garantire una migliore qualità di filtrazione. Questa qualità viene resa eccellente da una proprietà particolare delle diatomee stesse: la porosità. Questa proprietà deriva dalla struttura del microrganismo, come si vede dalla fotografia al microscopio elettronico di alcune specie particolari di diatomea, riportate sopra.

Gran parte del passaggio dell’acqua avviene infatti attraverso questa porosità piuttosto che attraverso i normali spazi interstiziali, che sono ben più ampi.
Inoltre, man mano che lo sporco occupa questi spazi interstiziali, la filtrazione viene spinta attraverso i pori, producendo una ulteriore “setacciatura” meccanica.

La filtrazione a diatomea riesce a trattenere particelle con diametri inferiore al micron, come viene dimostrato dal seguente esperimento:
in laboratorio si è preparata una sospensione di particelle di diametro inferiore a 40 micron (ossido di alluminio per cromatografia) avente torpidità di 3.6 NTU (Nephelometric Torbidits Unit): dopo un primo passaggio su membrana da 0.45 micron la torpidità residua era pari a 0.54 NTU. Dopo 4 successivi passaggi della stessa sospensione sulla stessa membrana la torpidità residua è scesa progressivamente a 0.28 NTU.
Ciò significa che sono state trattenute particelle di diametro inferiore a quelle della membrana, poiché al secondo passaggio la torpidità è scesa ulteriormente.
Secondo quanto afferma una pubblicazione americana, con farine fossili fini si rimuovono oltre il 99.86% di coliformi (diametro di 0.5-3.0 micron) e, con un condizionamento del minerale, si rimuovono persino i virus (dell’ordine di 0.1 – 0.01 micron di diametro) con una capacità di rimozione superiore al 99.95% (Hunter e al. “Coliform Organism Removals by Diatomite Filtration – Jour. AWWA sept.1966).

La filtrazione a diatomea impartisce inoltre all’acqua una sorta di brillantatura molto apprezzata nell’acqua di piscina.

La porosità caratteristica della farina fossile fa si che dopo un certo tempo essa si esaurisca, perda cioè la propria capacità di filtrazione poiché si otturano tutti i pori e l’acqua non riesce più a passare, con conseguente perdita di carico e aumento della pressione nel filtro.
Al contrario di ciò che avviene con i filtri a sabbia, quindi, il manto filtrante dei filtri a diatomea va periodicamente sostituito.
Un’altra conseguenza di questa caratteristica è il fatto che con i filtri a diatomea non è necessario impiegare flocculanti chimici. Con questo tipo di granulometria, il ricorso alla preventiva coagulazione e flocculazione chimica è non solo inutile, ma anche dannoso potendo provocare un impaccamento rapido del manto filtrante.

CARATTERISTICHE COSTRUTTIVE

Entriamo ora nel merito costruttivo e gestionale dei principali tipi di filtri presenti attualmente in commercio.

Per quanto riguarda le piscine pubbliche, sono stati ormai pressoché abbandonati i filtri con supporti in tela o ceramica porosa.
Quasi tutti i filtri presenti in commercio sono costituiti da supporti, rigidi o mobili, rivestiti in polipropilene sui quali vengono depositati i letti filtranti. Tali supporti sono attaccati in senso verticale ad una piastra in metallo, che fa da collettore.
L’acqua entra da sotto, attraversa lo strato di diatomee e le calze ed esce dai buchi sulla piastra, per riunirsi nel collettore di mandata.

In figura si può osservare la piastra
collettore con le calze appese.

Di fianco si vede la parte terminale delle candele che reggono le calze (impianto Baden).

In questa immagine si vede un filtro con il coperchio sollevato.
Si può notare il modo in cui la piastra viene inserita nel filtro (impianto Culligan)

 

Questa tecnologia consente di lavorare a bassa velocità, pur raggiungendo grandi portate ( i più grossi filtri Culligan raggiungono portate di 180 m3/h).
Le velocità massime di filtrazione indicate dalle case costruttrici sono nell’ordine dei 4/8 m3/m2h, contro i 30/50 m3/m2h dei filtri a sabbia.
La notevole superficie filtrante consente infatti di mantenere bassa la velocità all’interno del filtro pur raggiungendo grandi portate.

 

PRINCIPI DI FUNZIONAMENTO

Nei filtri a diatomea l’acqua proveniente dalla vasca di compenso, dopo essere passata dal prefiltro, viene spinta dalla pompa nel filtro, entrando dal basso ed uscendo dall’alto, come indicato nello schema nella fig.6 (filtrazione).

Durante la filtrazione la farina fossile si compatta intorno alla calza, trattenendo lo sporco. Quando il manto filtrante comincia ad impaccarsi, aumentando la perdita di carico e riducendo quindi la portata del filtro, esiste la possibilità di rompere il manto esistente e ricrearne uno nuovo senza dover necessariamente procedere allo svuotamento.
Questa operazione si può fare attraverso lavaggio in controcorrente (Baden) come indicato nella figura 7 (rigenerazione) oppure con un sistema brevettato a molla (Culligan).

 

Nel sistema Baden l’acqua viene fatta circolare dall’interno delle calze verso l’esterno, in modo da rompere il manto; riportando il ricircolo dell’acqua nello stato normale di filtrazione il manto si ricrea nuovamente.
Questa operazione viene chiamata “impulso” ed è descritta in figura.

Il sistema Baden è caratterizzato da supporti rigidi sui quali viene infilata la calza, ragione per cui solo movendo l’acqua controcorrente è possibile disgregare lo strato di diatomee e sporco che riveste la calza stessa.

Nel sistema Culligan, invece, i supporti delle calze sono costituiti da una molla d’acciaio. Durante la filtrazione la pressione dell’acqua spinge la calza all’interno delle spirali della molla, costringendo quest’ultima ad accorciarsi. Al massimo della perdita di carico prove sperimentali hanno dimostrato che la molla si accorcia di circa il 15% della lunghezza iniziale. Spegnendo la pompa la molla, non più spinta dalla pressione dell’acqua, si ridistende e rompe lo strato di diatomea. Riattivando la pompa il manto filtrante si ricompone.

Con questo tipo di tecnologia non è necessario effettuare il lavaggio in controcorrente. Mancano quindi totalmente gli automatismi che caratterizzano i filtri Baden.

SISTEMA BADEN
SISTEMA CULLIGAN

 

Quando le diatomee sono completamente esauste, poiché tutti i loro interstizi sono stati occupati da particelle di sporco, la perdita di carico diviene irreversibile e la pressione aumenta in modo costante, indipendentemente dalle rigenerazioni.
Quando la differenza di pressione tra l’entrata e l’uscita dal filtro supera gli 0.5 bar una ulteriore tenuta in esercizio del filtro può causare l’impaccamento irreversibile delle calze stesse, con conseguenza necessità di smontaggio e lavaggio con acido.
A questo punto le diatomee vanno scaricate e buttate in fogna.

Lo scarico delle diatomee esauste avviene attraverso tubazioni (impianto Baden) o con uno scarico a bocca libera in un pozzetto (impianto Culligan), cosa che facilita il distacco delle diatomee dalle calze, utile soprattutto in un impianto che non utilizza il lavaggio in controcorrente.

La figura n. 8 dello schema di circolazione (ricircolazione), si riferisce ad una fase prevista dall’impianto Baden all’atto della rimessa in funzione dell’impianto, dopo una rigenerazione o dopo lo scarico delle diatomee, prima di rimettere il filtro in regime di filtrazione normale. Il suo scopo è quello di ricostituire il manto filtrante attorno alle calze, per evitare che parte delle diatomee passino in vasca.

ASPETTI GESTIONALI

I motivi che hanno spesso portato a favorire impianti a sabbia rispetto a quelli a diatomea sono prevalentemente di natura gestionale.

Dal punto di vista economico, infatti, un impianto a diatomea:

– costa generalmente meno di uno a sabbia
– occupa meno spazio poiché i filtri sono più piccoli
– non necessita della batteria del controlavaggio
– non necessita di impiego di flocculanti chimici
– garantendo una maggiore purezza dell’acqua, fa consumare meno cloro poiché il disinfettante serve solamente come copertura in vasca e nelle tubazioni e non per ossidare sostanza organica, in gran parte trattenuta dall’impianto di filtrazione.

Va inoltre detto che con questo sistema di filtrazione viene praticamente eliminato il controlavaggio. Anche gli impianti che lo utilizzano, infatti, lo fanno per pochi secondi e scaricano una quantità veramente trascurabile di acqua.
Ciò consente in alcuni casi un notevole risparmio di acqua e di riscaldamento.

Le difficoltà di tipo gestionale derivano quasi sempre dal fatto che un impianto a diatomee non va trascurato: basta infatti una leggera carenza nella clorazione per impaccare il manto filtrante e costringere a buttare una carica.
Il problema poi, molte volte non viene risolto semplicemente con una normale pulizia, ma si trascina nel tempo perché le particelle di farina fossile, all’aumentare della pressione nel filtro, intasano le maglie delle calze di polipropilene, costringendo ad aprire il filtro e a lavare le calze con acido.

Può capitare, inoltre, che una calza si stacchi dal supporto o che si rompa, per usura o per una manovra sbagliata che provoca indesiderati e dannosi colpi d’ariete. In questo caso la finissima polvere di diatomee (e di carbone, nel caso questo venga utilizzato) va a finire in vasca, con conseguenze a dir poco spiacevoli.

Va detto, inoltre, che non tutte le farine fossili sono uguali: dipendono dal tipo di giacimento da cui sono tratte e da eventuali altre polveri aggiunte.
Ad esempio, la polvere commercializzata da Culligan si chiama Multitom, è un marchio registrato, e nel manuale viene descritta come “speciale miscela di sostanze inerti silicee fra le quali predominano scheletri di diatome”.
La miscela commercializzata da Baden si chiama invece Celite, come la maggior parte delle farine fossili commercializzate da altre ditte.
Può capitare quindi che la stessa miscela funzioni egregiamente su un certo supporto e impacchi subito un altro tipo di filtro così come, a parità di filtro, il risultato può cambiare in presenza di acque diversamente bilanciate.
Quando si sceglie una determinata farina fossile, quindi, non bisogna certo avere come primo parametro di riferimento il prezzo!

Anche le operazioni di svuotamento, pulizia e rimessa in funzione dei filtri quando si deve scaricare la diatomea è più lunga e laboriosa rispetto ad un singolo controlavaggio, ma se si considera il tempo che si risparmia tra una carica e l’altra si può facilmente verificare quanto alla fine i tempi impiegati nella manutenzione non siano poi tanto diversi.

La caratteristica brillantezza e lucentezza dell’acqua di una piscina trattata con filtri a diatomee è molto difficilmente comparabile con quella di una piscina dotata di filtri a sabbia.

Le diatomee sono inoltre ottimi alleati in caso di acque difficili, nelle quali è consistente la presenza di ferro o di manganese, ad esempio. In questi casi, è sufficiente provocare la precipitazione ad esempio con coloro o solfato di rame delle sostanze indesiderate durante la fase di avviamento della piscina per trattenerle sul manto filtrante e, rinnovate le polveri, avviare l’impianto per il normale ciclo di lavoro.
Anche il reintegro, pure se consistente, non crea problemi di intorbidimento dell’acqua poiché i filtri sono in grado di trattenere le impurità.

IL CARBONE ATTIVO

Alcuni impianti (ad esempio l’impianto Baden) al fine di migliorare ulteriormente la qualità dell’acqua offerta utilizzano carbone attivo in aggiunta alla farina fossile.

Nel processo di formazione il carbone attivo ha molto in comune con il carbon fossile, tuttavia si tratta di una sostanza non originatasi da materiale vegetale in determinate condizioni nel corso delle ere geologiche, bensì prodotta in stabilimenti chimici seguendo un processo pilotato di carbonizzazione secondo condizioni predefinite e partendo da materie prime vegetali.

Il carbone attivo è un materiale ottenuto dalla carbonizzazione di gusci di noci di cocco, ossa, cascami vegetali etc…ed il suo potere attivo è incrementato da un cosiddetto processo di attivazione, trattandolo ad esempio con cloruro di zinco a circa 700°C, o attivandolo mediante vapore acqueo a temperature di 800-100 gradi C., in modo che si formi una struttura di carbonio altamente porosa.
Questa struttura è pervasa da una gran quantità di capillari che costituiscono la superficie interna del carbone attivo.
La somma della superficie interna e di quella esterna costituisce un criterio per valutare la capacità di assunzione di sostanze dall’aria o dall’acqua. In media si ha una superficie di 900-1000 m2 al grammo di carbone attivo, per cui la quantità di carbone attivo corrispondente ad un cucchiaio di minestra offre la superficie di un ettaro!

Il carbone attivo lega soltanto sostanze che gli sono simili, cioè esclusivamente sostanze organiche. Sali inorganici oppure composti azotati non vengono invece legati.
Il legame con le sostanze organiche non è di natura chimica, ma si tratta per così dire di un’adesione dovuta a forze di attrazione elettrica, molto simile al fenomeno che attacca un chiodo di ferro ad un magnete.

In teoria, affinché un filtro a carbone attivo funzioni bene, l’acqua andrebbe prima depurata di sostanze solide sospese, anche microscopiche, che altrimenti otturano ben presto i pur numerosi pori del carbone attivo.
Ciò avviene, ad esempio, negli acquari, dove un filtro a carbone attivo è preceduto da uno a cartuccia.

Un altro problema non indifferente è che il carbone attivo è l’ambiente ideale per accogliere batteri che trovano uno spazio adatto a loro e anche sostanze di cui alimentarsi. Contribuiscono, è vero, a mantenere attivo e quindi pulito il carbone, ma colonizzano fino a costituire veri e propri “prati di batteri”.
Secondo Axel Oberbremer, autore di un articolo sulla rivista “Aquarium oggi” nel 1996, ” i filtri a carbone attivo stabili nella loro attività sono sempre rivestiti di batteri, un filtro a carbone attivo sterile ha una capacità di adsorbimento di sostanze organiche limitata”.

Comunque, una volta che la capacità di adsorbimento del carbone attivo si esaurisce, magari a causa dell’occlusione causata da microscopici solidi sospesi, l’attività filtrante si riduce praticamente a zero in brevissimo tempo e le sostanze organiche passano attraverso il carbone attivo senza essere filtrate.
Ciò viene in parte contrastato dall’immissione in continuo di una dose di carbone miscelata a diatomee. In questo modo si ha sempre a disposizione una parte di minerali attivi ed efficienti.

Viene invece usata come supporto filtrante l’antracite, questa si carbone vegetale vero e proprio. Essa ha per il 90% proprietà filtranti simili a quelle della sabbia e per il resto leggere proprietà adsorbenti.
La sua azione filtrante è dovuta alla forma irregolare dei grani di cui è composta, il che favorisce il formarsi di vuoti intergranulari, consentendo di ottenere alte velocità di filtrazione con basse perdite di carico e permettendo a grandi quantità di impurità di depositarvisi.
L’antracite granulare è molto efficace per completare, nei sistemi a doppio strato, i filtri a sabbia, poiché la densità dell’antracite è inferiore a quella della sabbia, pertanto si ottiene una buona separazione tra i diversi letti filtranti.